
E tu splendi – Giuseppe Catozzella illumina le librerie col suo nuovo romanzo
Finché in un posto ci saranno degli stranieri, sarà sempre colpa loro!
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Mai come in questo momento l’argomento immigrazione suona attuale: dai barconi che arrivano sulle nostre coste – ma poi, “nostre” di chi? – agli omicidi perpetrati dagli extracomunitari, il tema degli stranieri è quantomai attuale. Lungi dal voler liquidare la questione con parole che suonerebbero buoniste, banali e comunque inadeguate, non è una novità che molti, politici e non, cavalchino il tema della paura dello straniero come se fosse un cavallo da corsa.
Ce lo ricorda Giuseppe Catozzella nel suo ultimo romanzo, E tu splendi, che ha il grande merito di ricondurre la Storia dei giorni nostri – quella che sentiamo al telegiornale, per intenderci – alla storia privata di Pietro, ragazzino nato da genitori lucani nella periferia milanese – Milanox, come la chiama lui facendo una sintesi tra Milano e il Bronx. È durante le vacanze estive dai nonni che questo dodicenne che non dice un congiuntivo nemmeno per sbaglio, eppure ragiona come un adulto – la sua voce è uno degli aspetti più indimenticabili di questo romanzo – sperimenta in prima persona che cosa significhi essere stranieri: lo è lui, che nelle terre dei nonni ci va solo in vacanza, ma lo è soprattutto la famiglia di extracomunitari di cui scopre l’esistenza all’interno di una torre abbandonata. Alle reazioni di una buona parte degli adulti – i classici “ci vogliono rubare il lavoro”, “le donne guardano i nostri uomini”, tanto per cominciare – si contrappongono quelle ben più illuminate di Pietro e dei suoi amici, che arriveranno a scoprire come i mali del paese abbiano ben altre origini rispetto a quelle che qualcuno vuol fare credere.
Non è la prima volta che questo autore tocca il tema dei migranti e dello straniero perché, come ha detto lui stesso in occasione dell’incontro con i blogger in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, “lo straniero fa paura perché ti ricorda che sei straniero anche tu”. E in effetti chi può dire, risalendo indietro nel tempo e nelle generazioni, di non avere un passato di spostamenti, fosse anche da un paese a quello accanto?
Con una scrittura impeccabile, Giuseppe Catozzella ci regala una storia che si legge d’un fiato e che comunque la si pensi non può che farci riflettere non solo su chi siamo, ma anche su chi vogliamo essere.
A essere onesti fin da subito, eravamo una famiglia di invasori in una terra piena di ricchezze e di cose belle. Di nascosto eravamo andati a invadere per il lavoro un posto che non era nostro – questo ce l’aveva detto la suora all’asilo, e per il rapporto speciale che aveva con Dio lei non sbagliava mai.
Quel giorno – avevo solo quattro anni – quella donnina incappucciata di nero mi aveva indicato. Avevo avuto gli incubi. La mattina dopo, al risveglio, avevo giurato che non volevo essere come i miei genitori, una persona non gradita che andava a togliere il lavoro e a occupare le case, i parchi, le strade e tutte le cose eccezionali: io sarei sempre stato una persona gradita, anzi graditissima, se si può dire. Ci voleva molto coraggio, ma io pregavo ogni notte il Signore che me lo facesse trovare, e poi che mia mamma e mio papà imparassero un accento più simile a quello del Nord, così non ci riconoscevano.