
Titolo, copertina, traduttrice: almeno tre motivi per Continuare
Chiamatemi superficiale, ma io sono una che alle copertine dei libri ci tiene, e pure tanto. Quanti romanzi ho scelto perché un’illustrazione o una fotografia mi chiamavano irresistibilmente. Non parliamo poi del titolo: quanti libri, magari bellissimi, ho scartato perché non mi piaceva. E nel caso di titoli stranieri, quante volte ho scelto un libro rassicurata dal nome del traduttore – non sono un’esperta, ma da qualche tempo ho cominciato a prendere nota della penna italiana degli autori stranieri che mi piacciono, e leggere il loro nome sotto il titolo mi pare già di per sé una garanzia del contenuto.
Nel caso in questione, ero attratta da Continuare, ultimo romanzo di Laurent Mauvignier – autore del quale non avevo mai letto niente, nonostante in Francia sia apprezzatissimo e abbia ottenuto più di un riconoscimento – per almeno queste tre ragioni:
– La copertina, a mio avviso bellissima, che mi ha ricordato quella di un altro libro, combinazione di un’autrice francese, uscito sempre per Feltrinelli qualche anno fa: “Riparare i viventi”;
– Il titolo, essenziale, denso, profondo: possibile che nessuno avesse mai utilizzato questo verbo all’infinito per dare un nome al proprio manoscritto?
– La traduttrice, Yasmina Melaouah, l’inconfondibile voce italiana di Pennac, fra gli altri.
In caso questi elementi non fossero stati sufficienti, ci ha pensato la trama a darmi la spinta finale alla lettura.
Sibylle è una donna che si è da poco separata dal marito e si trova alle prese con un figlio adolescente che ne combina una grossa. Prima che sia troppo tardi decide di prendere in mano la situazione e parte con lui per il Kirghizistan nel tentativo di recuperare, in qualche modo, il contatto con le cose che contano e che ha cercato, a quanto sembra inutilmente, di trasmettergli. Il viaggio attraverso questa terra incontaminata, che i due affrontano a cavallo e a strettissimo contatto con la natura e con i nomadi del posto, si rivela una vera e propria avventura: una narrazione calma, nella quale prevalgono i ricordi del passato rispetto al racconto del presente, è percorsa da un filo di tensione che da un certo momento in poi lascia il posto a un incalzare di eventi che chiudono il cerchio e lasciano il lettore stupefatto quasi fino all’ultima pagina.
Le tematiche affrontate sono tante, tutte verosimili e molto moderne: dagli sbandamenti degli adolescenti di oggi, all’ignoranza sul tema musulmani/arabi; dalla paura di chi è diverso all’onnipresente tema dell’amore, non solo quello di una madre per il proprio figlio ma anche quello di una donna, con le sue esigenze di persona adulta, in quanto tale.
La protagonista indiscussa è proprio lei, Sibylle, personaggio controverso e a tratti fastidioso, che alterna momenti in cui dimostra grande coraggio ad altri in cui si piange addosso, spacciandosi come la causa di tutti i mali di chi le sta intorno. Soltanto alla fine la si rivaluta completamente, perché solo verso le ultime pagine si capisce fino in fondo il peso che si porta sulle spalle e la dignità con cui affronta la vita, con quello che dice e, soprattutto, con quello che non dice.
Lei lo vede, è stupita, ma sa benissimo cosa pensa e che senz’altro non dirà, perché altrimenti lo direbbe con parole che gli scapperebbero di bocca e poi resterebbero indelebili – quel che è detto è detto, anche se uno cerca di rimangiarsi tutto sostenendo che si è lasciato trascinare dalla rabbia, dall’emozione, da quello che gli pare, sostenendo che le parole sono state più veloci del pensiero. Invece no, Sibylle lo sa, e lo sa anche suo figlio, le parole pronunciate hanno la stessa velocità del pensiero.
È proprio questa la prova definitiva dell’amore di una madre per il proprio figlio e, forse, la più grande lezione che l’esperienza dell’amore in quanto tale ci lascia: la capacità di fare silenzio e di tenere per sé le parole che fanno male.
Muoiono le persone, ma anche i paesi, capisci, tutti, se crediamo di non aver bisogno degli altri o che gli altri siano soltanto un pericolo, allora siamo fottuti. Andare verso gli altri non significa rinunciare a se stessi.