
Il silenzio coprì le sue tracce: la natura raccontata da Matteo Caccia
Sembra che la montagna ultimamente sia di gran moda fra gli scrittori. È questa la prima cosa che ho pensato appena ho cominciato a leggere l’ultimo romanzo di Matteo Caccia: inevitabilmente il pensiero è andato a Le otto montagne di Paolo Cognetti. La seconda cosa alla quale ho pensato è stata: “però, che sfortuna scrivere un romanzo sulla montagna proprio pochi mesi dopo che Cognetti è uscito col suo”. In realtà mi sbagliavo, perché Il silenzio coprì le sue tracce non parla di amicizia – come fa Cognetti – né semplicemente di montagna, quanto di natura, nel senso più ampio del termine. È lei infatti la grande protagonista delle sue quasi duecento pagine ed è una natura neutra, né benevola, né malevola nei confronti dell’uomo e più in generale di chi la abita.
Il protagonista del romanzo, Zambo, si sposta dalla città verso la montagna perché deve riportare un oggetto del padre e in questo peregrinare insieme a Tobia, il cane appartenuto al suo vecchio, si imbatte in diversi personaggi che segnano il suo cammino: una famiglia che ha scelto la vita di montagna; Agnese, che ne fa parte e che ha una relazione con lui; Dindon, un ex partigiano amico del padre e un lupo, un ibrido per essere precisi, che a tratti sembra un alter ego del protagonista. Ogni scena di questa vita in mezzo alle montagne è descritta con dovizia di particolari, a riprova di una conoscenza approfondita dei luoghi raccontati e un lavoro di ricerca sicuramente non da poco.
Matteo, come mai hai raccontato una storia ambientata in questo scenario?
Sono nato in Piemonte, in mezzo alle risaie, e ho sempre avuto la sensazione di venire da un posto poco interessante: mi sembrava che chiunque fosse originario delle grandi città del sud Italia avesse avuto una vita molto più ricca di spunti della mia. Per questo, pur essendo stato a contatto con la natura fin da piccolo – i miei mi portavano a Caprera d’estate e nel Sesia d’inverno – non ho mai creduto alla favoletta di chi lascia la città per andare a vivere in campagna. La natura per me non ha questa connotazione così bucolica e romantica come alcuni fanno credere, la natura è dura ed è questa quella che ho cercato di raccontare. Ho iniziato a pensare a questa storia per caso, qualche anno fa, quando sono stato in una casa poderale in Maremma, sul Monte Labbro. Il mio cane, che è un tipico esemplare “da divano”, appena è arrivato lì ha cominciato a stare sempre più in giro da solo. Poi tornava, ma sembrava così tanto spinto dall’istinto, dal richiamo della natura a starsene per i fatti suoi, che ho cominciato a fare una ricerca sul lupo selvatico. Ho scoperto che i lupi sono stati sterminati dal fascismo, che da allora hanno percorso un territorio selvaggio sulla dorsale appenninica, dove ci sono villaggi abbandonati dall’uomo che la natura si è ripresa, che il lupo italiano ha incontrato un esemplare di lupa slovena e che così è nata una nuova razza.
Cosa rappresenta per te il lupo?
Quello che ho cercato di raccontare è il confine tra domestico e selvatico, chi siamo noi quando abbiamo la luce accesa e chi siamo quando la spegniamo. Il protagonista fa un percorso identitario, arriva con un cane e torna con un lupo, perde un pezzo domestico e ne acquista uno selvatico e le stesse persone che incontra lungo il cammino in realtà servono quasi a fargli togliere di dosso la civiltà che si porta dietro.
Ti sei ispirato a qualcuno nella stesura di questo romanzo?
Mi sento sicuramente vicino e in debito nei confronti di Cormac McCarthy, che mi affascina da sempre. Probabilmente mi ha influenzato il suo La strada, che peraltro non è fra le opere di questo scrittore che preferisco. È anche vero che la prima parte di Oltre il confine è dedicata a una lupa:
Il lupo è come un fiocco di neve, che se lo stringi in mano già non c’è più.
Partendo da questa considerazione di Mc Carthy, ho raccontato un lupo selvatico, che non è il lupo cattivo ma nemmeno un lupacchiotto, al punto che per un senso di profondo rispetto per la natura stessa di questo animale, il protagonista del romanzo non lo tocca mai.
Un’altra persona a cui devo in parte questa storia è Pietro Grimelli, imprenditore figlio di uno dei più grandi partigiani genovesi, che in occasione di una delle mie serate “Don’t Tell my Mom” al Pinch di Milano – serate in cui persone comuni salgono sul palco e raccontano una storia che hanno realmente vissuto – condivise una vicenda che riguardava sua nonna. Questa donna aveva conservato sotto il letto la pistola di suo figlio, ex partigiano appunto, e dopo la sua morte la ritrovarono proprio lì sotto il letto in una scena abbastanza tragicomica.
Possiamo dedurre dal tuo romanzo una certa voglia di allontanamento dalla civiltà che forse è un desiderio diffuso nell’uomo moderno?
Direi proprio di sì. Per quanto mi riguarda, quello che mi disturba è questo diffuso “commentismo”, se così lo possiamo chiamare, reso possibile dai social network. Io per primo li uso e li reputo importanti mezzi di creazione di contenuto, ma faccio veramente fatica a stare dietro alla mole di informazioni da cui siamo bombardati. Con questo non voglio neanche dire che sposo l’idea di una “wilderness italiana” sulla scia di quella americana: quello che mi premeva sottolineare è l’esistenza di luoghi che l’uomo aveva già preso, che ha abbandonato e di cui la natura si è riappropriata.
Il tratto distintivo di questo romanzo è che la natura è davvero protagonista e il linguaggio dei suoi personaggi – gli animali, ma anche l’uomo – lo riflette in tutto e per tutto: non c’è spazio per i sentimentalismi o per l’approfondimento psicologico, c’è solo un corso naturale delle cose e una altrettanto naturale pietà, come quella che traspare da uno dei passi che più mi sono piaciuti:
Un rumore alle spalle lo fece voltare: un animale enorme e scuro si mosse in maniera innaturale, allontanandosi. Urlò ancora il nome del suo cane, ma quella bestia non rispondeva e avvicinandosi distinse due diversi animali: Tobia era sdraiato su un fianco, mentre un lupo lo stava trascinando via.
“Lascialo!”
Il lupo mollò la presa e, senza un rumore, sparì nel bosco. L’uomo si avvicinò al cane…
“Stai tranquillo, è passato.”