
Salvare le ossa
È ormai da tempo che si sente parlare della provincia americana e di quanto siano alla ribalta quegli scrittori che vivono lontano da New York e dalle sue logiche da grande città. Il proprio, piccolo mondo, questi scrittori ce lo stanno facendo conoscere pezzo dopo pezzo, tanto che ormai, quando pensiamo agli Stati Uniti, almeno da un punto di vista letterario sono proprio i contesti all’apparenza marginali che cominciano a venirci in mente per primi. Forse perché questa America è molto più alla nostra portata, più vicina alla nostra esperienza di europei e di italiani: le piccole realtà, quelle dove si conoscono tutti e non succede mai niente, eppure succede tutto. Il fenomeno Kent Haruf è emblematico al riguardo – nonostante la cittadina di Holt sia il frutto di un’invenzione, il mondo che questo scrittore ha raccontato è tutt’altro che lontano dalla realtà -, ma penso anche a un autore come David James Poissant, sempre edito da NN, che la provincia americana ce l’ha fatta conoscere da un altro punto di vista, attraverso i suoi racconti popolati da animali e dalla natura.
Non avevo però ancora letto un romanzo che raccontasse la provincia americana dei neri di oggi, di quei contesti di grande degrado – culturale, sociale, economico – di chi sta ai margini e ha la pelle scura. Solitamente i romanzi che parlano dei neri finiscono per cadere nella tematica del razzismo, prima o poi, ma non è questo il caso: Salvare le ossa, che è valso a Jesmyn Ward il National Book Award, racconta infatti i giorni che precedono l’arrivo dell’uragano Katrina nella vita di una famiglia, quella dei Batiste, in un contesto in cui, forse perché sono tutti neri, bisogna mettersi d’impegno per non perdere questo dettaglio. L’ordinarietà delle vicende narrate le renderebbe infatti associabili tranquillamente a una famiglia di bianchi, se non fosse che, appunto, così non è.
Ad aprire lo sguardo del lettore su un contesto segnato dalla povertà e dal sudiciume nel senso stretto della parola è Esch, unica ragazzina di una famiglia composta da tre fratelli – la madre è morta anni prima dando alla luce l’ultimo genito – e dal padre, alcolizzato e incapace di occuparsi come si deve dei suoi ragazzi. Un uomo che trascorre giornate senza senso, sempre in sella a un trattore di cui sembra di sentire il rumore, sempre intento a spostare e demolire non si sa bene cosa. Nel frattempo i figli vivono come possono, dividendosi tra le partite di basket – Randall, il più grande -, i combattimenti fra Pitbull – Skeetah, il secondo (personaggio che ho adorato) – e il sesso occasionale – Esch ammette che le riesce particolarmente naturale.
L’unica cosa che mi è sembrata facile fin dall’inizio, come nuotare nell’acqua, è stata il sesso. Avevo dodici anni. La prima volta l’ho fatto sdraiata sul sedile davanti nel camion di papà, quello col cassone ribaltabile.
In tutto ciò, il piccolo Junior sembra uno zainetto caricato sulle spalle ora dell’uno, ora dell’altro fratello, ciascuno intento a proteggerlo da ciò che lo circonda, ma comunque incapace – comprensibilmente – di sostituirsi del tutto alla figura di genitore.
I fatti salienti che interessano questa scombinata famiglia, nel momento in cui la conosciamo, sono principalmente due: la nascita dei cuccioli di China, il Pitbull di Skeetah, sul quale questo ragazzino riversa un amore più vicino a quello di un padre che di un padrone, e la gravidanza di Esch, che lei tiene nascosta ai suoi ma che, pian piano, diventa sempre più evidente. Ed è quindi in un contesto in cui si sprigiona la vita che si insinua la potenza devastante dell’uragano Katrina, dapprima quasi un vaneggiamento nella fumosa testa di Claude, il padre dei ragazzi, e poi invece realtà ingovernabile che si abbatte sul Mississippi, distruggendo anche quel poco che questa gente possiede.
Se uno dei suoi compagni di bevute gli avesse chiesto che cosa aveva in programma per quella sera, papà avrebbe risposto che si preparava per l’uragano. È estate e qui, in estate, c’è sempre un uragano che va o che viene. Si fa largo dalle acque piatte del Golfo del Messico fino ai quarantadue chilometri di spiaggia artificiale del Mississippi, dove si abbatte sulle vecchie residenze di schiavi trasformati in ostelli, e investe il bayou, si insinua tra i pini scaricando pioggia grondante a mano a mano che il vento perde forza, per andare a morire più a nord.
***
È un’eclissi da uragano, questa: il legno che sbarra le finestre, l’interno della casa così buio che la cosa più luminosa è il bianco della maglietta di Junior.
***
La madre assassina che ci ha feriti a morte e tuttavia ci ha lasciati vivi, nudi, stupefatti e raggrinziti come bimbi appena nati, come cuccioli ciechi, come serpentelli appena usciti dal guscio, affamati dal sale. Ci ha lasciati qui perché impariamo a camminare da soli. A salvare ciò che possiamo. Katrina è la madre che ricorderemo finché non arriverà un’altra madre dalle grandi mani spietate, sanguinaria.
È una storia di ordinaria esistenza e resistenza, quella che ci racconta la Ward, descrivendola con un linguaggio così crudo che in certi momenti, se avessi potuto, mi sarei tappata gli occhi come si fa nelle scene in cui un film ci impressiona. Niente di truculento o splatter, semplicemente questa scrittrice ha la capacità di raccontare con realismo e dovizia di particolari ogni cosa – la sporcizia, la carne che si strappa nei combattimenti fra cani – e ci impone di vedere le cose a trecentosessanta gradi, nella loro portata oggettiva e in quella soggettiva dei personaggi, senza mai esprimere, anche lontanamente, un giudizio.
Io sento un movimento dietro il seno, come se qualcuno avesse aperto una canna dell’acqua al massimo, e l’acqua riscaldata dal calore estivo schizzasse fuori dalla pompa, bruciandomi. È amore, e fa male. Manny nemmeno mi guarda.
***
Se potessi mi ficcherei dentro una mano e mi strapperei via il cuore, e quel minuscolo seme bagnato che diventerà il bambino. Prima quelli; il resto non farà così male.
Se vogliamo trovare un punto in comune con la trilogia di Kent Haruf che ho citato prima, considerato che tanto per la storia raccontata, quanto per la scrittura questi due autori non potrebbero essere più diversi, direi che si tratta della scorrevolezza del pagine: scivolano tra le dita, come se quel maledetto uragano soffiasse tra i polpastrelli del lettore, costringendolo ad andare avanti senza dargli il tempo di rendersene conto. E così si arriva alla fine di questo romanzo come alla conclusione della prima stagione di una serie TV: che cosa succede a questa gente? Quando partorisce Esch? C’è una speranza che Claude riesca a risollevarsi, almeno un minimo, dall’abbrutimento in cui trascorre le sue giornate?
Non è semplice elencare le caratteristiche di questo romanzo che lo rendono una pietra miliare, proprio come è difficile stilare un elenco di ciò che ci fa amare una persona. Però è proprio così: questa è una storia che lascia il segno, e se non è questo il grande romanzo americano, allora non so quale potrebbe definirsi tale. E io che in linea di massima preferisco i libri a una puntata sola, scalpito all’idea che non è finita qui, proprio come sussultavo ogni volta che usciva in libreria un titolo della trilogia di Haruf.
Sono i corpi a raccontare le storie.
15 Maggio 2018 at 14:17
[…] Su La Lettrice Geniale Su ForEva Su Libriamoci Blog Su Critica Letteraria Su Virginia Villa Su Giro del Mondo attraverso i Libri Su Le Personal Book Shopper – Intervista a Monica Pareschi Su Panorama.it Su Leggo Quando Voglio Su BookTubeItaliaLeggeIndipendente Su Sul Romanzo Su The Bloody Island The DesperateBooksWife Su The Book Diver di Francesca Coco […]