
Perché Milano è meglio di Roma (se ci devi vivere)
Perché mai una persona dovrebbe essere interessata a leggere un libro con questo titolo? Beh, i casi sono due: o sei una diciottenne che deve decidere dove frequentare l’Università, o sei una trentenne che pensa esattamente la stessa cosa. Purtroppo, io ho superato i diciott’anni da un pezzo.
A quell’epoca, mi trovo a dover fare la classica scelta della Facoltà. L’indecisione è fra Scienze Politiche e Scienze della Comunicazione, perché sono le facoltà più adatte per chi vuol fare la giornalista. E tutti pensano che io farò la giornalista. Tutti quanti non proprio, in realtà, perché reduce da tre anni di teatro con la scuola, la sottoscritta coltivava velleità artistiche e l’idea di rinunciare al brivido da palcoscenico, proprio non mi scendeva. Trovo quindi un compromesso, che sta bene sia a me che ai miei genitori: mi iscrivo al primo anno di Scienze Politiche alla Terza Università di Roma e nel frattempo cerco un insegnante che mi prepari per cercare di entrare, l’anno seguente, all’Accademia Silvio D’Amico. Il tutto, dopo avere studiato dizione a Cagliari con una maestra bravissima, che oltre ad avermi insegnato la differenza tra pèsca e pésca, mi ha aperto le porte della poesia, facendomi conoscere una caterva di parole indimenticabili.
Ma che qualcosa sarebbe andato storto, avrei dovuto intuirlo sin dalla telefonata con A.: “Sai, ho deciso che voglio provare a realizzare il mio sogno: cerco di entrare in Accademia!”.
“Radiolina, ma sei sicura? Io non ti ci vedo proprio”.
“Ma come no? Certo, sono ancora acerba, ma secondo me un pochino sono portata e poi mi piace un sacco”.
“Ma è un ambiente molto duro, non è semplice”.
“Sì, lo so, ma a me le sfide piacciono e poi ci voglio solo provare, non è detto che mi prendano”.
“Guarda, non so se magari data la tua altezza…”.
“Esagerato, ok che non sono una stanga, ma nemmeno una nana!”.
“Sì, però devi tenere conto che non puoi essere alta come un fucile, le armi devi saperle maneggiare bene”.
“Eh? Armi? Ma di che cavolo stai parlando?”.
“Beh, non penserai che ti facciano usare l’arco e le frecce”.
Insomma, avete capito. A. pensava che io volessi frequentare l’Accademia Militare. Ma ve lo immaginate? Io? Tutta Barbie e vestitini? D’accordo, A. era un personaggio e forse non dei più svegli, ma forse già da quella telefonata avrei dovuto intravedere un presagio funesto.
Comunque, arriva la maturità e scelgo di scrivere una storia partendo da una serie di sonetti di autori vari, ai quali devo dare un senso attraverso racconto. E lì la mia fantasia galoppa, facendomi scrivere una storia che, per me, era pura fantascienza. Fingevo, infatti, di essere una giornalista che raccontava di come i giovani cagliaritani che andavano a studiare fuori, dopo un anno decidessero di tornare indietro, vinti dalla nostalgia di casa. E concludevo citando una delle mie poesie preferite, “La città” di Costantinos Kavafis:
“… Altrove, non sperare,
non c’è nave non c’è strada per te.
Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto
tu l’hai sciupata su tutta la terra”.
Ho ripensato tante volte a quel tema, soprattutto quando studiando Sociologia Generale sono venuta a conoscenza della teoria della “profezia che si autoavvera”. Me l’ero forse tirata? Probabilmente sì ma, credetemi, a meno che il mio subconscio non stesse parlando per me, quella era nella mia testa solo un’assurda favoletta. Io volevo con tutta me stesa andare a Roma, ero strasicura che quella fosse la città giusta per me da quando guardando “Non è la RAI” dicevo a mia madre: “che sfortuna, se solo vivessimo a Roma, anche io potrei fare i balletti e la doccia di Dietorelle”. E mia madre ringraziava il Signore di vivere in Sardegna, altrimenti avrebbe dovuto combattere anche questa piaga, oltre a tutte quelle legate al fatto di avermi come figlia.
Comunque, vado a Roma e inizia la mia avventura. Nel giro di tre settimane, perdo tre chili e tanti capelli: sveglia tutti i giorni alle sei, cambio della metro a Termini per prendere la B, in facoltà fino alle quattro e poi a casa a studiare fino alle undici. E questo tutti i santi giorni. Ero letteralmente stremata. Ogni tanto mia madre mi diceva: “Ma scusa Radiolina, torna a casa almeno per qualche giorno, che sarà mai perdere qualche lezione”.
“No mamma, non sarebbe serio assentarmi senza motivo e poi devo abituarmi, questa è la città in cui trascorrerò il resto della mia vita ed è bene che prenda il ritmo”. Follia pura. Se ci penso, mi faccio anche un po’ di tenerezza.
Se non altro la Facoltà mi piace tantissimo, l’idea del teatro c’è sempre (anche se, ripensandoci, fatico a capire dove avrei dovuto incastrare le lezioni di recitazione) e riesco perfino ad entrare in contatto con un ex insegnante dell’Accademia che mi dà un sacco di dritte e mi dice le cose come stanno:
“Guarda, potenzialmente ce la potresti pure fare. La cadenza si sente ancora un po’, ma non eccessivamente (per la cronaca: mi facevo un culo quadro a parlare con la dizione sempre, proprio per cercare di essere naturale il giorno del tanto agognato provino, anche se mi sentivo come la voce di Trenitalia “Il treno in arrivo al binario 1 e diretto a Cascina Gobba…”, avete presente?). Hai un viso espressivo, e anche questo gioca a tuo favore. Ma ti smonto subito una strana idea che ti sei fatta: togliti dalla testa di frequentare l’Accademia e studiare per l’Università. E’ matematicamente impossibile. Se entrerai in Accademia, vivrai lì dentro giorno e notte. Stringerai delle amicizie, ma dovrai soprattutto tenerti alla larga dagli squali, perché ci proveranno in tanti, forse anche alcuni docenti, e quando non ci proveranno gli insegnanti lo faranno i colleghi, magari solo per farti abbassare le difese e fotterti la parte. E tu dovrai essere sempre carina e simpatica. E’ una giungla, devi essere preparata”.
Torno nella mia stanza di via Fregene abbastanza sconvolta. Io volevo fare teatro, mica la velina! E questo scenario del bellum omnium contra omnes mi terrorizzava abbastanza: io volevo farmi degli amici! Oltretutto a me piaceva tantissimo studiare e non volevo di certo mollare. Ancora ricordo il primo esame, quello di statistica. L’assistente (la figlia del Prof., tanto per cambiare), mi fa: “Ciao, ma questo è il tuo primo esame? Che coraggio, proprio statistica! Ma li hai diciotto anni?”.
“Eheh, faccio io tutta sorrisini e cuoricini, certo!”. A diciannove anni ne dimostravo quindici, quindi perché non approfittare di questa fortunata condizione? La mia età presunta e la mia faccia di culo, si rivelarono dei punti di forza inimmaginabili, in quella come in altre occasioni.
Trascorrono i mesi e pian piano realizzo che la mia città mi manca: mi mancano le mie amiche di sempre, le mie strade, le mie abitudini. Bella esperienza, quella romana, ma per il momento può bastare così. E così torno a casa più felice che mai, come il figliol prodigo che ha trovato la retta via, e pur non disdegnando viaggi vari ed Erasmus, penso che è a Cagliari che voglio costruire il mio futuro. Finché non decido di fare il master e trasferirmi a Milano, ma questo lo sapete già.
Leggendo il titolo di questo libro, scritto per di più da una cagliaritana, mi sono incuriosita. Tuttavia mi dispiace, ma il giudizio che do è “ni”. Mi spiego.
La prima parte, mi ha abbastanza infastidita. I racconti sui romani e sul loro modo di fare, seppure basati su un fondo di verità, li ho trovati eccessivamente conditi e se fossi un romano, mi sentirei un po’ “infastidito”, se non offeso. E’ vero che l’autrice sconsiglia di leggere il libro ai nativi della capitale, comunque rimango dell’idea che le generalizzazioni non vadano mai bene. La seconda parte mi è piaciuta di più, perché l’autrice si spiega meglio, generalizzando meno e rimarcando più spesso che si tratta di esperienze personali.
La vera vincitrice è comunque, inutile dirlo, Milano, i cui pregi vengono descritti anche con una certa umiltà che, a mio parere, non guasta mai.
Nel complesso, è un libro scanzonato che fa senz’altro riflettere sulle differenze tra due città che sono un po’ l’emblema di due Italie diverse, che forse non si assomiglieranno mai, ma che potrebbero essere sicuramente migliori se imparassero l’una dall’altra (e, francamente, credo che Roma abbia un pochino di più da imparare). Anche io, infatti, condivido l’opinione dell’autrice che per tanti aspetti vivere a Milano sia più semplice (certo, allora ero una pischella di 19 anni e studiavo, ora ne ho 30 e lavoro), ma vivere in una città in cui non puoi fare alcun affidamento sui trasporti, insufficienti e inaffidabili, è veramente tosto. E anche se ti porti dietro la macchina, non va di certo meglio. Ci sta allora anche la considerazione dell’autrice sui reperti che si trovano ogni volta che si comincia a scavare per ampliare la metro: una scusa che ormai non regge più.
Ma i romani cosa ne pensano? Mi piacerebbe saperlo e quindi lascio a loro la parola.