
Nessuno può fermarmi: l’esordio di Caterina Soffici nel mondo del romanzo
Si dice che la morte di un uomo è una tragedia, mentre quella di molti è una statistica. Purtroppo un po’ è davvero così, eppure se la morte di tanti uomini viene raccontata nel modo giusto, magari soffermandosi di più su alcuni di loro, si riesce a far comprendere meglio anche la vicenda umana delle persone che fanno parte di quella fredda “statistica”.
È questo l’effetto del primo romanzo di Caterina Soffici, nota giornalista e saggista, che con Nessuno può fermarmi ci fa rivivere una tragedia dimenticata, quella dell’Arandora Star, che io per prima – ma immagino di non essere la sola – non avevo mai sentito. In sintesi, il 2 luglio 1940 una nave inglese carica di più di mille persone, fra le quali oltre quattrocento italiani trapiantati a Londra e accusati ingiustamente di sostenere il fascismo, partì alla volta del Canada, dove però i deportati non arrivarono mai: la nave fu infatti colpita da un siluro tedesco al largo delle coste irlandesi e solo in pochi riuscirono a salvarsi.
Caterina, da che cosa è nata l’idea di raccontare proprio questa tragedia tra le tante di cui, purtroppo, la nostra storia è piena?
In questa tragedia mi sono imbattuta per caso, guardando la lapide dedicata ai morti dell’ Arandora Star alla Chiesa londinese di St Peter. Nelle tragedie sono sempre coinvolte persone. Spesso lo dimentichiamo, perché releghiamo la tragedia in un titolo di giornale o nel paragrafo di un libro di storia. A me interessa l’aspetto umano. Questo romanzo è nato così: volevo raccontare il lato umano di un fatto che ha coinvolto così tanti italiani, un fatto poco conosciuto e dimenticato. E la migliore maniera per farlo era far rivivere nelle pagine di un romanzo quegli anni. La Little Italy di Londra, la vita degli immigrati, i loro sogni, il coraggio di emigrare e intraprendere il viaggio per un luogo che allora era lontanissimo, dove si arrivava a piedi e spesso si moriva per la strada.
Immagino che l’attività di ricerca abbia rappresentato una parte importante del tuo lavoro. Quanto tempo hai impiegato a scrivere “Nessuno può fermarmi”?
Ho impiegato quasi tre anni, tra ricerche e scrittura. La scrittura è un processo lento, che deve maturare dentro. Nel romanzo si intrecciano le storie di oggi, con le mie due voci narranti – il giovane Bart e la signora inglese Flo – con la grande Storia del passato. Ho raccolto tutto il materiale, ho capito quali erano le cose che volevo mettere in evidenza, ho fatto una griglia sommaria dei capitoli e un albero genealogico della famiglia e poi ho iniziato a scrivere. Sapevo più o meno dove volevo arrivare, non come arrivarci. Quando entri nel mondo magico della scrittura entri davvero in un universo parallelo che non controlli completamente. Certe cose le ho scritte perché sono stati i personaggi a volerle fare.
Nel libro sono nominati diversi luoghi importanti: il quartiere di Little Italy a Londra, Bardi, cittadina dell’Emilia Romagna alla quale appartenevano quasi cinquanta delle vittime, l’isola di Colonsay, in Scozia, altro importante luogo di sepoltura e di commemorazione. Tu li hai visitati tutti personalmente?
Abito a Londra e quindi a Little Italy sono stata varie volte. Ho percorso quelle strade finché non ho visto i miei personaggi prendere vita lì. Sono stata all’Ivy Restaurant, ancora oggi una meta di vip e celebrities, che proprio l’anno scorso ha compiuto 100 anni. E sono andata anche a Bardi e a Colonsay, i luoghi dove due persone speciali coltivano la memoria delle vittime dell’Arandora Star. Non dico di più, ma chi leggerà il libro lo scoprirà. Scrivere di luoghi dove si è stati rende la narrazione più viva. Tutto poi è filtrato dalla fiction, non faccio semplici descrizioni dei luoghi. Ho voluto piuttosto carpire il genius loci, come lo definirei. Quello è importante. E’ come per un pittore dare la pennellata giusta, vedere la luce in quel dato momento.
Perché hai scelto la forma narrativa del romanzo e non ad esempio quella del saggio?
Perché il saggio è una scrittura a due sole dimensioni: quella temporale e quella spaziale. Di base tu racconti i fatti. Un romanzo invece ha tutte le dimensioni che gli vuoi dare: il carattere dei personaggi, le loro interazioni, la psicologia, le relazioni, i flashback. Quindi nel romanzo racconto i fatti attraverso una storia di amore e di amicizia. Perché come dicevo prima, mi interessava principalmente il lato umano di questa tragedia. Tutto il libro è giocato su questo doppio registro: sotto scorre la Storia, quindi tutti i fatti che racconto sono assolutamente accaduti e verificati e cerco di stare il più vicino possibile alla realtà. Dall’altra parte invece porto avanti il racconto con i miei personaggi, che sono di fantasia.
Personaggi che sono comunque estremamente verosimili e ai quali è difficile non affezionarsi, a cominciare dal protagonista Bart, vero e proprio motore del romanzo con il suo tentativo di scoprire di più sul nonno che non ha mai conosciuto e di cui porta il nome. Proprio la sua ostinazione finirà per fargli incontrare la vecchia Florence, che seppure inizialmente riluttante a ripercorrere il passato, proprio grazie a Bart è costretta a farci i conti:
Brutta bestia, la memoria. Quando ti serve, non si fa trovare. Quando la vorresti lasciare riposare nel suo antro, si sveglia d’improvviso, arriva al galoppo e travolge tutto. Strano come alla nostra età più le cose si allontanano, più diventano nitide…
Ciò che sta accadendo è la prova che si possono vivere più vite. Vite diverse e inimmaginabili. Pensavo che alla mia età il futuro fosse già scritto. Mi ero rassegnata a finire i miei giorni sola, con le mie passeggiatine nel quartiere, gli esercizi al pianoforte e le conversazioni strappate qua e là. Invece è arrivato questo ragazzo a buttare tutto all’aria.
Qual è stata la difficoltà maggiore, se c’è stata, nel passare alla forma del romanzo?
Questo è il mio primo romanzo, ma nella mia vita ho sempre scritto storie. Quindi diciamo che le ho sempre avute nella penna. Ma fino ad adesso non avevo mai avuto il tempo né la possibilità di creare quel vuoto che serve per poter scrivere un romanzo. Stando a Londra ho cambiato vita e ho trovato questo vuoto. Per dare vita a una fiction devi svuotarti prima e poi riempirti con la vita dei tuoi personaggi.
Tra tutti i personaggi ce n’è uno a cui sei particolarmente affezionata?
Difficile dirlo. Forse Flo, la vecchia signora inglese. Comunque li sento tutti un po’ miei figliocci, ma lei ha qualcosa di speciale. Mi piacciono le figure femminili del romanzo. Dopo gli arresti, quando gli uomini vengono deportati, le vite delle tre donne (Flo, Lina e Margherita) iniziano a girare intorno alla piccola routine, al cibo e alle faccende del Berni’s Café a Little Italy. I rapporti di amicizia e solidarietà tra donne possono essere molto profondi. Come anche le rotture, quando si incrinano gli equilibri, come succede nel romanzo.
L’amicizia è come l’amore. Può anche ridursi a un filo sottilissimo, ma non può essere a senso unico. Se il filo si rompe è finita, non c’è più niente da fare. Era penoso, per me, fare quelle telefonate e sentire il gelo dall’altra parte.
Il secondo romanzo di Caterina Soffici di cosa parlerà?
C’è già un’idea che sta prendendo forma. Ci sto pensando da un po’ e piano piano alcuni dei personaggi si stanno presentando davanti ai miei occhi. Li vedo soprattutto quando nuoto. Io amo nuotare e camminare in montagna, che sono due attività similari, anche se possono sembrare opposte. Con Nessuno può fermarmi la piscina è stato uno dei miei rifugi. Quando ero incastrata in un passaggio o capivo che c’era qualcosa che non funzionava nella narrazione, andavo a fare la mia nuotata quotidiana (non sempre ce la faccio, ma almeno ci provo a far sì che sia quotidiana). Nuotare mi aiuta a distendere i pensieri e a creare quel vuoto di cui parlavo. Chissà quanti chilometri dovrò nuotare ancora, prima che il prossimo romanzo sia finito.
Speriamo non troppi, ma siamo disposti ad aspettare. Del resto la prova che Caterina sappia nuotare abilmente nelle acque del romanzo, ce l’abbiamo sotto gli occhi.