
L’uomo dei boschi
Se la perdita di un genitore, in sé, è un evento eccezionale, si può anche dire che è nell’ordine delle cose, un fatto banale. In questa storia ciò che lo è meno sono le circostanze.
Non l’ho visto. Non so il giorno esatto della morte. Non ho la certezza assoluta del carattere accidentale della caduta. So il punto di partenza e il punto di arrivo, so più o meno dove è precipitato, ma mi manca il motivo, la causa, la spiegazione, il finale.
Un giorno il padre di Pierric Bailly prende la sua auto e si ferma in prossimità del bosco. Nessuno sa perché, forse va a cercare funghi. Sta di fatto che non fa più ritorno. Non torna più perché cade, con tutta probabilità, e precipita da una piccola scarpata, spaccandosi la testa. Il suo corpo viene trovato solo giorni dopo la presunta data di morte e da quel momento Pierric comincia a tormentarsi: come è morto mio padre? Avvia un’indagine personale – siamo proprio sicuri che sia andata così? – e rovistando tra i ricordi, e ripercorrendo infinite volte i luoghi che hanno visto gli ultimi momenti di vita del padre, cerca delle risposte. Questo libro, difficile da etichettare – sicuramente non un romanzo, forse un memoir, a tratti quasi un diario sui generis – è il racconto di quel periodo.
Una cosa che mi hanno insegnato ai corsi di scrittura creativa è che quando si scrive si dovrebbe cercare di non raccontare fedelmente la propria vita, piuttosto di usarla come ispirazione. Forse anche per questo si dice che a conti fatti tutti gli scrittori parlano sempre della propria esistenza, semplicemente servendosi di personaggi di finzione per prendere quel minimo di distanza dalle cose, e che ogni scrittore ha sempre e solo una storia da raccontare – la propria – che ripete e ripete, seppure in modo sempre diverso. Io credo che tutte queste cose siano corrette, e che L’uomo dei boschi, che uscirà in libreria il 22 maggio per Edizioni Clichy, ne sia la perfetta sintesi: Bailly ci racconta la sua esperienza personale, non c’è dubbio, e come potremmo dire che non avrebbe dovuto farlo? Ci tiene col fiato sospeso dalla prima all’ultima pagina, vogliamo sapere, speriamo con lui, come in un avvincente romanzo di fantasia. E invece è la sua vita. Il punto è che la racconta con una sobrietà tale che non c’è una riga nella quale lo si possa accusare di voler commuovere il lettore. E, cosa più unica che rara, non ci racconta i suoi rimorsi, perché non ne ha – forse – o perché ce lì vuole risparmiare, ché già abbiamo i nostri. E così L’uomo dei boschi, quest’uomo morto in circostanze misteriose, questo padre di cui sentiamo la mancanza anche se non era il nostro, vive nelle pagine del figlio con la grazia che solo i grandi scrittori sono capaci di dare alle storie.
Non cerco più di sapere a tutti i costi. Cerco di accettare ciò che non si spiega. Mi capita di pensare a questa storia come a una specie di giallo, un poliziesco senza altro colpevole che la natura, la campagna francese, i boschi del Jura. Ma cerco soprattutto di crederci. Cerco di accettare che sia veramente successo, che non ho sognato quella settimana folle e drammatica, che malgrado il tenore romanzesco degli eventi, questi non appartengono al campo della finzione letteraria, ma proprio a quello della realtà.
E proprio in quel momento, quando Pierric si libera delle parole che ha dentro, questo senso di liberazione pervade anche il lettore, e allora riusciamo quasi a vederlo, quest’uomo né giovane né vecchio, con la mano fuori dal finestrino mentre saluta la nipotina che lo guarda dallo specchietto retrovisore. Vediamo la sua macchina rossa, dapprima tutta intera, un volante e quattro ruote, poi una macchia di colore, infine un puntino lontano, e niente più.
Volevo dire che era un bosco che gli somigliava, e che era a sua immagine, quella di una persona solitaria e un po’ selvaggia.