L’impresa eccezionale
Dati i commenti che, qualche giorno fa, un accenno a un episodio dell’infanzia ha suscitato sulla mia pagina Facebook, mi sembra doveroso, quantomeno nei confronti di chi ha subito le mie angherie di bambina, raccontare qualche piacevole aneddoto ambientato tra le pareti dell’edificio in cui ho imparato a leggere e a scrivere.
Ricordo come fosse ieri il primo giorno di scuola. Avevamo una maestra bravissima e sapevamo tutti di essere dei privilegiati: l’unica laica dell’istituto ad avere la sezione A (prerogativa delle suore che esercitavano un potere assoluto sui bambini e sulle cose, in particolare sul portafoglio dei loro genitori) e non la sezione B.
“Allora bambini, stabiliamo una regola. Quando volete andare in bagno, alzate la mano e chiedetemi il permesso”.
Animato da grande educazione e timore reverenziale (perché la maestra era sì brava, ma anche severa come una guardia svizzera), un nanerottolo si alza in piedi, le si avvicina bianco come un lenzuolo e le chiede “maestra, maestra, posso andare in…. BLEAAAAAAAA”. E mentre noi ci pieghiamo in due dalle risate, raggiungendo più o meno le dimensioni di una noce di cocco, la maestra si trasforma nella moglie dell’incredibile Hulk: verde in faccia, in parte per la rabbia ma soprattutto a causa del liquido che l’aveva completamente sommersa, risponde ” vai pure in bagno. In questi casi, bambini, non c’è bisogno che mi chiediate il permesso, correte via immediatamente”.
Ogni mattina, cominciavamo la lezione con una preghiera spontanea, che recitavamo a turno.
Quel giorno, spettava a Matteo: “Caro Gesù, io ti prego tanto perché alla mia mamma passino le emorroidi”.
Alla maestra scappa una mezza risata e noi bambini non capiamo.
Tornata a casa, chiedo spiegazioni ai miei genitori. Così ho scoperto all’età di sei anni cosa fossero le emorroidi e mamma e papà hanno saputo fin dalla prima elementare che la madre di M. aveva un problemino laddove non batte il sole.
Nel periodo di carnevale, c’era l’usanza di addobbare l’aula con dei nastri colorati.
“Se volete, bambini, portate pure dei festoni, così li appendiamo”.
Il giorno dopo, Giorgio si presenta con mezz’ora di ritardo, accompagnato dal padre. Non ci crederete, ma quest’uomo teneva in mano un fustino di Dixan vuoto!!! Vedendolo, la maestra scoppia a ridere e lui, per giustificarsi, le dice imbarazzato “il bambino mi aveva detto che serviva un fustino, anche se francamente non avevo idea dell’uso che ne poteste fare…siamo arrivati tardi perché abbiamo impiegato un sacco di tempo per svuotarlo”.
Ora io mi chiedo, ma come ti viene in mente non solo di portare un fustino, ma vuoto poi…a che cosa pensi che possa servire???
Uno dei momenti migliori era poi costituito dalla lezione d’inglese. Un giorno la maestra, che amava i bambini più o meno quanto i topi amano i gatti e che era famosa per una frase certamente non inglese ma di dubbia correttezza anche in italiano (“se non stai zitto, mi salti la porta“), termina la lezione e lascia il posto alla legittima titolare. La quale si siede e, guardando sotto il primo banco della fila centrale, dice “ma cos’è quella pozza lì sotto?”.
Ed è in quel momento che il bambino di fronte a lei alza la mano dicendo con un certo orgoglio “maestra, sono stato io. Questa è la mia pipì. Ho preferito non andare in bagno, per non perdere nemmeno un minuto della lezione d’inglese”.
Quando assisti a cose del genere, rimani segnato per sempre. Certamente era una classe con seri problemi fisiologici e, probabilmente, anche mentali. Una vera scuola di vita insomma, che mi ha subito fatto capire che l’impresa eccezionale è sul serio essere normale.
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Vita vissuta