
Le fedeltà invisibili
Le fedeltà invisibili.
Sono fili che ci legano agli altri, ai vivi come ai morti… sono contratti per lo più stipulati con noi stessi, parole d’ordine accettate senza averle comprese, debiti che custodiamo nei recessi della memoria… i valori per cui lottiamo, i fondamenti che ci permettono di resistere, i principî indecifrabili che ci tormentano e ci imprigionano.
Con un incipit così sfido chiunque a non trovare irresistibile questo romanzo. Io ci giravo intorno da tempo, attratta inizialmente dal titolo e dalla copertina, e dopo avere scorso queste prime righe non ho avuto dubbi.
I temi affrontati non potrebbero essere più attuali: l’alcol, la depressione, la disoccupazione, la solitudine, i social, ma anche l’amicizia e l’importanza del ruolo degli insegnanti, tanto per voler parlare per categorie generali. E non mi stupisce che ad avere raccontato Le fedeltà invisibili sia una scrittrice francese, Delphine de Vigan, tradotta per Einaudi da Margherita Botto, perché mi sembra che i francesi ultimamente siano molto attenti a descrivere i tormenti dell’adolescenza nel mondo di oggi – penso a Maylis de Kerangal e a Laurent Mauvignier in particolare.
Ma quali sono le fedeltà invisibili di cui si parla in questa storia? Sono quella di Hélène, che da piccola ha preso botte dal padre e che non ha mai detto niente, e che ora si accorge che quel bambino della sua classe così silenzioso, introverso, assente, nasconde qualcosa.
Ho pensato che fosse un bambino maltrattato, l’ho pensato quasi subito, forse non i primi giorni ma poco dopo l’inizio della scuola, era qualcosa nel suo atteggiamento, nel suo sottrarsi allo sguardo, qualcosa che conosco, che conosco a memoria, un certo modo di mimetizzarsi, di rendersi trasparente. Ma con me non funziona. Le botte le ho prese da bambina e i segni li ho nascosti a oltranza, perciò a me non la si fa.
Sono quella di Théo, questo ragazzino che si porta sulle spalle il fardello della separazione dei genitori, che vive una situazione ai limiti del possibile – eppure sì, certe cose succedono – e affoga il dolore come può.
Théo aveva imparato in fretta a recitare il ruolo che ci si aspettava da lui. Parole misurate con il contagocce, espressione neutra, occhi bassi. Non fornire alcun pretesto. Da entrambi i lati della frontiera il silenzio si era imposto come l’atteggiamento migliore, quello meno rischioso.
***
… Théo vorrebbe qualcos’altro. Vorrebbe raggiungere lo stadio in cui il cervello si mette in pausa. Lo stato d’incoscienza. Far tacere finalmente quel rumore acuto che sente solo lui, che si manifesta di notte e a volte anche in pieno giorno.
Ma anche il suo amico, Mathis, l’unico compagno di giochi che ha e che conosce il suo segreto, sa che cos’è la fedeltà.
Mathis continua a tacere. È troppo tardi. Avrebbe dovuto raccontare che cosa ha visto il giorno in cui ha accompagnato Théo da suo padre.
E lo sa la madre di Mathis, Cécile, che è fedele a un uomo che si accorge di non conoscere veramente.
È strana, del resto, questa sensazione di quiete, quando finalmente emerge ciò che ci rifiutavamo di vedere ma che era lì, sepolto poco lontano, questa sensazione di sollievo quando il peggio trova conferma.
Il punto di vista cambia continuamente, dagli adulti che parlano ciascuno in prima persona, ai due amici che ci vengono raccontati da una voce fuoricampo che osserva tutto dall’esterno come una telecamera invisibile, eppure questa storia fila alla perfezione, dall’inizio alla fine, e si viene trascinati in un vortice di accadimenti così inevitabile, che si rimane imbambolati a dire “ecco, lo sapevo che andava a finire così.” E invece no, perché la fine non è davvero una fine, o almeno così mi è sembrato, e ci sono rimasta male perché mi si è appiccicato addosso un senso di incompiutezza che mi fa oscillare tra l’idea che questo sia un romanzo perfetto e quella che la storia che ci racconta non sia ancora finita. Che, in fondo, è proprio quello che spero.