
L’amore a Londra e in altri luoghi
Siamo cresciuti per strada, respirando il porto, il baccano dei barconi passeggeri, l’odore dei pesci del mercato, guardando i tonni appesi ai ganci enormi, inseguendo le moto dei turisti, aspettando che arrivassero i parenti per l’estate, gridando scherzi ai vecchi solitari, rubando sigarette a nonni e zii; siamo cresciuti come selvaggi di buona educazione, come avventurieri di un mondo senza fine, un isolotto che piano piano ci è sembrato piccolo, insopportabilmente isola; ma certe primavere è stato un parco giochi, una pista da correre e un campo di battaglia, intrepidi mai stanchi esploratori.
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Sono cresciuto e sono andato via, dopotutto non era così difficile, dopotutto bastava crescere, e questo non è mai difficile, sono cresciuto e sono andato a studiare lontano, con la domanda sempre scritta in faccia a mia madre, e a mia nonna ancora più forte, quella domanda: “Come puoi farlo, come puoi lasciarci qui da sole? cosa ti manca qui con noi?”.
…eppure ce l’ho fatta e sì, mi è sempre dispiaciuto sapere lontane le mie donne sole, ma dovevo andar via, così ho fatto, sempre col ricordo di quegli anni, ricordi in poesia, bugiardi di nostalgia, col bisogno di andare e il dolore di non poter restare.
Vorrei esordire dicendo che quelle sopra sono parole che ho scritto io, ma naturalmente non è così. Quello che posso dire, però, è che quando uno scrittore riesce ad esprimere quello che si ha dentro e che non si è mai tirato fuori, almeno non così, ecco, in quel momento si crea un’empatia che difficilmente si può spiegare. Se poi lo scrittore è sardo, e anche della propria zona, moltiplicate per mille.
Quella sopra è la Sardegna, la mia isola, la mia terra, quella che porto dentro e dietro ogni giorno. Uno zaino pesantissimo pieno di ricordi, di strade, di odori, di incontri, l’isola che ti isola, l’isola che non potrei desiderare di vivere da nessun’altra parte, l’isola che basta, me ne devo andare, l’isola che hai fatto bene ad andartene, l’isola che un giorno tornerò, l’isola che non lo so.
Per noi sardi, il mal di Sardegna è una sindrome comune. Per noi cagliaritani, che un po’ ci sentiamo cittadini del mondo, o quantomeno di questo pezzo di terra in mezzo al mare, forse ancora di più. E’ tipo il mal d’Africa (non per niente, i sassaresi ci chiamano “africani”), ed è quel misto di nostalgia e desiderio di futuro nell’isola che, dicono, spinge prima o poi tutti i sardi a voler tornare a casa.
Personalmente, ho conosciuto il mal di Sardegna a 19 anni, quando sono andata a studiare a Roma. Allora, forse semplicemente non ero matura per vivere da un’altra parte, eppure se me n’ero andata era perché qualcosa mi aveva spinto a cambiare scenario, strade, persone, odori. Sono tornata indietro dopo un anno e non me ne sono mai pentita perché, in fondo, avevo ancora tante cose da fare nell’isola, tante da vivere, e solo allontanandomi l’ho capito. Poco male, perché
le indecisioni e le confusioni sono parte della vita e non una debolezza della mente.
Sono passati 10 anni e quel bisogno di andare è tornato, più forte e più consapevole di prima, perché a quel punto, come direbbe Gibran, c’era “un restare nel mio andare”. Non sono affatto dispiaciuta di avere cambiato città e vita, anzi, non potrei essere più felice, perché ora ho due città e due case, quando prima ne avevo solo una. E forse proprio per questo mi sono rispecchiata tanto nelle parole di Flavio Soriga, “col bisogno di andare e il dolore di non poter restare”, perché, effettivamente, è esattamente quello che provo ogni volta che torno in Sardegna: mentre osservo Cagliari dall’alto, mi prende un orgoglio inesprimibile per la mia città e la mia gente, nella mia testa penso che i miei amici di Milano vedano quello che vedo io e me li dipingo accanto a me, con la bocca spalancata, stupiti per tanta bellezza. “Ecco, lì c’è lo stabilimento dove ho trascorso la mia infanzia, lì lo stadio, quella è la Cattedrale e quelle sono le mura di Castello“, penso di dire indicando dal vetro. Quando poi riparto per Milano, invece, anche se una parte di me si dispiace non vedo l’ora di arrivare a destinazione, perché è casa anche quella, perché ho un mare di cose da fare che adoro e mi fanno sentire viva, di persone che, mi piace pensare, mi aspettano e si aspettano qualcosa da me. “Da domani si ricomincia”, dico agli amici milanesi che immagino sul mio aereo, “ma venerdì aperitivo!”.
Con questa premessa, con i pensieri che mi ha evocato questo libro, potete immaginare cosa ne pensi: semplicemente meraviglioso. Perché è potente, perché è scritto bene, perché ha qualcosa da dire e lo dice con la grazia che solo le poesie più belle hanno. Sono otto racconti e hanno tutti a che fare con l’amore, in un modo o nell’altro. Perché di amori ce ne sono tanti, per le persone e per i luoghi insieme. Perché, girala come vuoi, alla fine anche i luoghi sono fatti di persone.
Non avevo mai letto nulla di Flavio Soriga, semplicemente perché non mi era mai capitato. Questo Natale un caro amico mi ha regalato L’amore a Londra e in altri luoghi e quello che penso, ve l’ho detto. E se, come ho letto in queste pagine,
…forse i momenti più belli non sono, diciamo, gli incontri speciali, le prime volte, come si crede, forse sono solo i rincontri, le prime volte di nuovo, dopo anni di assenza, come è successo a noi stasera.
credo che, prima o poi, io e questo scrittore ci incontreremo di nuovo.