
L’alfabeto di fuoco – quando le parole fanno male davvero
Potrei dire che l’amore si mostra in strani modi, ma in questo caso non sarebbe vero. Qualche volta l’amore rifiuta del tutto di mostrarsi. Rimane perfettamente nascosto. Si passa tutta la vita a nasconderlo, è una vera e propria arte. Nascondere l’amore è, a modo suo, lo stratagemma più sofisticato che ci sia…
La sospinsi di nuovo, allontanandola ancora di più da casa, e a un certo punto si abbandonò contro di me e si fece portare. Sul marciapiede la lasciai e con le mani feci il gesto più terribile che potevo. Non avrei potuto essere più chiaro. Stai qui. Non entrare mai più in casa. Te lo vieto. Non ti conosciamo. Esther alzò lo sguardo su di me e annuì. Con il mignolo si fece una croce sul cuore.
La scena descritta potrebbe essere quella vista e rivista, nei film come nella vita: un genitore esasperato dal proprio figlio che, con il cuore in gola e non sapendo più che cosa fare, lo caccia fuori di casa. Ma qui non stiamo parlando di un normale litigio in famiglia portato all’estremo: abbiamo a che fare con una malattia terribile, che si trasmette col linguaggio, per cui qualsiasi cosa questo figlio – figlia, per la precisione – dica, le conseguenze sui genitori sono devastanti a prescindere dal contenuto. Cacciarla di casa è davvero l’ultima soluzione. Anzi, la penultima, perché poi non resta che sparire, allontanarsi il più possibile da quella creatura che si è deciso di mettere al mondo, e non farsi trovare mai più.
Credo che questo estratto racchiuda in sé il genio di Ben Marcus, perché L’alfabeto di fuoco è prima di tutto questo: un’idea geniale.
Film apocalittici in cui l’umanità rischia di estinguersi nel giro di pochi giorni ne abbiamo visti tanti, ma lì di solito c’è un qualche virus arrivato da non si sa dove a contaminare gli esseri viventi. Qui invece è proprio il linguaggio a uccidere, sono le parole che danno voce ai nostri pensieri e, in senso più ampio, alla nostra stessa esistenza, a rappresentare un veleno mortifero, provocando in chi le ascolta una vera e propria malattia. Unica categoria immune quella dei bambini che, almeno fino a una certa età, possono annientare gli adulti con le loro frasi, senza però esserne toccati. È questo quello che accade a Esther, la figlia che Sam, voce narrante del romanzo, è costretto a mettere alla porta nel tentativo disperato di salvare se stesso e, soprattutto, la propria moglie, Claire.
L’alfabeto di fuoco, portato in Italia da Edizioni Black Coffee, è un romanzo che si legge in fretta – personalmente ci ho messo meno di una settimana – perché la storia è avvincente e la trasposizione in parole magistrale – a questo proposito standing ovation non solo a Marcus, ma anche alla traduttrice italiana, Gioia Guerzoni. Eppure è anche un romanzo complesso, così complesso che rileggendolo troverei probabilmente interpretazioni e livelli di lettura diversi rispetto alla prima volta. Speravo che Marcus raccontasse da dove è venuto questo romanzo, ma in occasione dell’intervista di Giorgio Vasta allo scorso Salone del Libro di Torino l’autore ha detto di non avere una risposta.
È difficile dire da dove vengono le idee, e a volte non sappiamo neppure dove vadano a finire. Certo è che se non esistesse il linguaggio, se non avessimo la possibilità di esprimere quello che pensiamo, sarebbe davvero un bel guaio. Forse ci estingueremmo, di sicuro la nostra vita non avrebbe più molto senso. O forse no, forse avrebbe più senso, ma sarebbe un senso nuovo e difficile da immaginare, da reinventare completamente.
Quando la mia famiglia sarà di nuovo riunita, non avrò bisogno di parlare, di leggere, di scrivere. E in fin dei conti, cosa ci sarebbe da dire? Fra noi le parole non servono. Stiamo bene nel nostro silenzio. Preferiamo così.
Lo dice Sam a un certo punto e viene da chiedersi se non sia proprio questo il significato di questa storia. In un momento storico in cui ci sentiamo tutti scrittori, oratori, uomini straordinari per almeno cinque minuti al giorno, L’alfabeto di fuoco ci costringe a chiederci se anche per noi, così innamorati delle parole e continuamente mossi dal nostro vile desiderio di parlare, di scrivere, di essere ascoltati, non sia arrivato il momento di stare zitti.
Trattenersi dal raccontare è forse una delle più alte forme di rispetto che ci siano.