
Kantstrasse
La prima volta che ho varcato la soglia dell’appartamento in Kantstrasse, ho pensato di avere sbagliato indirizzo. La casa era vecchia, coi pavimenti di legno. In ogni angolo troneggiava un cimelio della Repubblica Democratica Tedesca, pieno di polvere. C’erano bandiere, un candelabro in finto argento, il modellino di una Trabant. Sembrava di stare in un museo.
“Ti va un caffè?”, mi ha chiesto Lars facendomi entrare in cucina. “Noi lo facciamo con la moka, come gli italiani”, mi ha detto.
“Grazie”, ho risposto, più per cortesia che perché davvero ne avessi voglia.
“E così ti serve una stanza solo per tre mesi”.
“Esatto, solo tre mesi. La ragazza che mi aveva affittato la sua torna dall’India a fine marzo ed eravamo d’accordo che da aprile avrei cercato un altro posto.”
“La stanza è molto grande”, mi dice Lars indicandomi quello che doveva essere il salotto. Sulla parete alla mia destra c’era un letto matrimoniale pieno di cuscini, a sinistra un tavolo rotondo con quattro sedie, di fronte una scrivania e accanto alla porta una grossa stufa a carbone. “Io vado in Brasile per la tesi di dottorato e mi serve qualcuno proprio per tre mesi. Quando vorresti entrare?”.
“Fine marzo, se possibile. Oppure il primo aprile, più tardi non posso, non saprei dove andare”.
“Ok, non è un problema. Per qualche giorno potrei dormire sul divano nella terrazza coperta. L’hai vista?”
Mi fa strada verso una stanza quadrata adiacente alla cucina, chiusa sui tre lati da un vetro. A centro un tavolino pieno di bottiglie di birra vuote e un posacenere traboccante sigarette spente. Una tv, una console Nintendo e una pila di giornali vecchi l’uno sull’altro.
“Comunque non sono io che decido. Per Hannes non c’è problema, so già che gli andrai benissimo. Però Sabine ti deve vedere, è lei che ha l’ultima parola. Torni la prossima settimana?”
“Certo”.
Ho suonato da dietro la porta e mi ha aperto Lars, facendomi un grande sorriso. Sabine era nel corridoio, appena dietro di lui. I capelli biondo cenere, gli occhi di un azzurro liquido, aveva tutta l’aria di essere una ragazza abituata ad avere maschi per casa e che fosse felice di trovarsi di fronte una ragazza. Mi ha stretto la mano, “Herzlich wilkommen Franzi!”, mi ha fatto entrare di nuovo in cucina. Mentre preparava il caffè abbiamo cominciato a chiacchierare, cosa fai, quanti anni hai, da dove vieni. Lei era più grande di me, tutti loro lo erano, in realtà. Dopo un po’ è arrivato un altro ragazzo, ancora più grande. “Sebastian”, mi ha detto con una forte stretta di mano. “Non vivo qui, ma spesso mi fermo a dormire. Sono il fidanzato di Sabine”. Siamo rimasti a chiacchierare per un’ora nel mio tedesco improbabile. Due settimane dopo ero diventata un’inquilina di Kantstrasse.
Di quei tre mesi ricordo soprattutto il mio vocabolario di tedesco aperto alle quattro del mattino, Sabine che mi guardava con dolcezza mentre dopo l’ennesima birra cercavo la parola che volevo dire esattamente. Le partite a Super Mario Tre, io che sceglievo sempre Peach, e non vincevo mai. La musica balcanica che echeggiava per la casa. Le chiacchierate con Bastian mentre aspettava che Sabine tornasse dal lavoro. “Bastian, ma tu non credi proprio a niente?”, gli ho chiesto un giorno. “Ich glaube in Guten Menschen”, mi ha risposto, lui che era cresciuto sotto il comunismo, passando l’adolescenza in Ucraina senza sapere una parola di russo.
Li ho rivisti questa estate, Sabine e Sebastian. “Veniamo in Sardegna con i bambini, stiamo vicino a Sassari. Riusciamo a incontrarci?”
Ci siamo dati appuntamento a metà strada, verso Oristano. Sono arrivati prima di noi, ci aspettavano al parcheggio. Quando ho visto Bastian all’ombra di un albero, la camicia bianca e i pantaloni neri, ho ingoiato il cuore un paio di volte, rimandandolo giù a fatica. Gli sono corsa incontro, ci siamo stretti in un abbraccio fortissimo, senza riuscire a trattenere l’emozione. Helene e Maxim devono aver pensato chi è questa matta che piange, ma ho abbracciato forte anche loro, che avevo visto solo in fotografia.
Poi sono andata a cercare Sabine, non c’era campo e lei si era inoltrata verso la spiaggia per vedere se fossimo già lì. L’ho vista da lontano, “Sabine, Sabine, ich bin da”, e chissà cosa volevo dire esattamente, ma tanto il mio tedesco è così, una lingua che non esiste e che funziona solo tra di noi. Non siamo cambiate, solo qualche macchia in più sulla pelle, ma siamo sempre noi. In spiaggia abbiamo montato gli ombrelloni e siamo subito corsi in acqua, Alice in braccio a me con il suo salvagente più grande di lei, Helene che ha imparato a nuotare da una settimana e Maxim che si rotola nella sabbia come una foca. Non è facile raccontarsi undici anni in qualche ora un pomeriggio d’estate, ma non ce n’è stato bisogno, perché ci eravamo già detti tutto in quegli abbracci. Anche i bambini hanno parlato, a modo loro, Alice con i suoi gagaga e gulugulu, Helene e Maxim con un tedesco decisamente migliore del mio. Mentre ci salutavamo, di nuovo al parcheggio, con la promessa di non far passare altri undici anni, Helene ha dato ad Alice un bastone di bambù che aveva trovato lì, vicino alla spiaggia, e ho pensato che la nostra amicizia fosse proprio così: un ramo di bambù che resiste sempre uguale alla distanza e al tempo che passa.