
Dovrei proteggerti da tutto questo
ll vecchio detto “i panni sporchi si lavano in casa” è sicuramente sempre molto attuale, ma con qualche eccezione. Una, a mio parere, vale per il genere letterario del memoir. Una sorta di diario, di viaggio personale di un autore nei propri ricordi, un percorso all’indietro nella propria esistenza, quasi sempre con una non trascurabile dose d’introspezione.
Ultimamente mi sembra che questo genere sia alla ribalta, o forse non è mai tramontato e, semplicemente, in questi mesi è capitato a me di leggere diverse autobiografie – penso a In gratitudine di Jenny Disky e Clessidra di Deni Shapiro – che mi danno l’idea ci sia una corrente particolarmente prolifica in questo momento. Credo che pubblicare un diario sia un’impresa non da poco, specialmente a livello psicologico, e pensare di essermi trovata completamente avvinta dalla vita degli altri come se si trattasse della trama dei migliori romanzi, dà la misura di quanto i titoli che ho nominato siano scritti bene.
Non fa eccezione Dovrei proteggerti da tutto questo, memoir pubblicato in Italia da Edizioni Clichy e scritto dalla trentunenne Nadja Spiegelman, figlia di Art Spiegelman – il celebre autore del graphic novel Maus – e Françoise Mouly, art director del New Yorker. Per sette anni Nadja ha rivolto prima a sua madre e poi a sua nonna così tante domande da averle a tutti gli effetti intervistate, consegnandoci – attraverso un lavoro paziente in cui ha scandagliato aspetti non facili del passato familiare – la storia di quattro generazioni di donne, partendo da se stessa per arrivare alla bisnonna, e trasportandoci più volte da Parigi a New York.
La storia o, meglio, le storie che la Spiegelman racconta sono sicuramente di per sé interessanti, a cominciare dal rapporto dell’autrice con la propria madre. Niente di tragico, ma proprio per questo in molti aspetti di quello che leggiamo ritroviamo parti della nostra adolescenza prima e dell’età adulta poi.
Come sempre accade quando si mettono nero su bianco fatti realmente accaduti, si scoprono episodi che forse sarebbe meglio non conoscere, ma Nadja è disposta a correre il rischio e arriva il momento in cui anche sua madre è pronta a smettere di proteggerla e ad aprirsi fino in fondo:
Te lo racconterò quando sarai più grande diceva, e adesso ero grande abbastanza. Sarebbe passato molto tempo prima che capissi la tristezza che aveva negli occhi quando gliel’avevo chiesto la prima volta.
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Io e le mie amiche parliamo di quanto ti odiamo le ha detto una volta un’amica. Sei francese, fai il lavoro più bello di tutta New York, sei spostata con un uomo di successo, sei bella, sei magra, hai due figli meravigliosi. Non è giusto. Sei perfetta. Mia madre non era perfetta. Mia madre era intensa. Le cose non succedevano perché erano possibili, succedevano perché era lei a deciderlo… Riusciva a incendiare l’universo, ma usava se stessa come combustibile. Da qualche parte dentro di lei la terra era bruciata.
Molto interessanti anche le riflessioni dell’autrice sull’elaborazione dei ricordi e il peso che hanno nella ricostruzione delle storie, insieme alla constatazione che chiedere di raccontare la stessa cosa a persone diverse significa ottenere versioni diverse di una stessa storia:
Avevo cercato di recente l’etimologia della parola passato. Veniva dal francese pas, passo, dal latino passus, lunghezza di una gamba. Inizialmente significava viaggio. Il passato, dunque, non era un posto fisso che si poteva visitare. Non era statico. Era un viaggio, un movimento continuo.
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Secondo la neuroscienza, quando smuoviamo un ricordo lontano, quest’ultimo fluttua nel nostro inconscio, instabile, per una finestra temporale di circa tre ore. Durante quel tempo, il ricordo è malleabile. Il presente penetra nel passato. Aggiungiamo dettagli per riempire i vuoti. Poi il cervello ri-codifica il ricordo come se fosse nuovo, sovrascrivendo il vecchio. Mentre torna a inabissarsi nelle profondità delle nostre menti, non abbiamo alcuna consapevolezza di cosa abbiamo guadagnato o perso, né del perché… Le storie che usiamo per creare la nostra identità – le storie che raccontiamo ai nuovi amanti alle cinque del mattino per fargli capire chi siamo – sono anche quelle su cui abbiamo ricamato maggiormente. Sono state modificate dagli umori e dalle circostanze in cui le abbiamo raccontate. Sono state modificate dal significato che ogni volta avevamo bisogno di attribuire loro.
Quello che però fa davvero la differenza e dà una marcia in più a questo memoir è la scrittura della Spiegelman, che con un ritmo serrato e una prosa asciutta ci fa completamente appassionare alle vicende di quel micromondo dove tutto ha inizio – la famiglia, appunto – anche quando, a pensarci bene, non hanno nulla di eccezionale. Sotto tanti punti di vista, nonostante i nomi importanti di alcuni dei suoi componenti, la famiglia della Spiegelman è una famiglia come tante: i non detti, le incomprensioni, le cose che potevano andare in un modo e invece sono andate in un altro, le persone che erano forse mosse dalle migliori intenzioni, ma che dal racconto non ne escono bene per niente. È il caso di Josée, la nonna dell’autrice, figura piuttosto fredda e a tratti quasi malvagia, che è arrivata a togliere la parola alla nipote, come l’autrice ha raccontato durante la presentazione del libro a Milano. Eppure quello che traspare da queste pagine non è un tentativo di distribuire colpe e meriti, ma solo la volontà che ha questa ragazza di fare chiarezza, di scoprire le proprie origini e di provare a comprendere il perché degli atteggiamenti di alcune delle persone più importanti della sua vita.
Vedere i fatti propri messi in piazza è sicuramente poco piacevole per chi viene chiamato in causa, quindi capisco che qualcuno possa restarci male. C’è poi chi sostiene che dal momento che non inventano niente, e che perlopiù raccontano vite ordinarie, i memoir sarebbero una prova di egocentrismo, più che di letteratura, alla massima potenza. In parte è sicuramente così, ma da lettrice non posso fare a meno di riconoscere che questa ragazza americana così sorridente e allo stesso tempo così caparbia nel riassemblare i pezzi del suo puzzle familiare, abbia fatto un lavoro eccellente nel nome della ricerca della verità, e il fatto che la sua indagine si sia rivolta a vicende private non ne sminuisce il valore. Adesso aspetto di vederla all’opera con una fiction, perché mi sbaglierò, ma credo che Nadja Spiegelman abbia molto altro da dirci, non solo sulla sua famiglia.
A quanto pare non sapevo dove finiva lei e dove iniziavo io, cosa avrei dovuto condividere e cosa no.